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Storia di ieri. Scultura e arti decorative (schede catalogo) [ versione stampabile ]

a cura di Anna Mavilla

Testa d’aquila, [1930-1933]
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
bronzo, h cm 13; base in marmo antico, cm 16,5 x 13
TRAVERSETOLO, MUSEO “RENATO BROZZI”
BIBLIOGRAFIA: GRISO 1933, fig. p. 19; Renato Brozzi. Mostra antologica …, 1981, p. 67, fig. 17; Damigella 1983, p. 32, fig. 12; de Guttry, Maino, Quesada 1985, p. 103, fig. 5; Renato Brozzi. La collezione del Museo di Traversetolo …, 1989, p. 172 n. 394, tav. XX
ESPOSIZIONI: Parma 1933, Parma 1981
 

Esposta dall’artista alla Mostra sindacale d’arte tenutasi nelle sale del Ridotto del Teatro Regio nel 1933, insieme ad alcuni studi di animali (Cfr. Studio di bove, ripr. in GRISO 1933, fig. p. 24), l’affascinante Testa d’aquila costituisce la versione in bronzo (di cui sono noti numerose repliche, una delle quali appartenuta a Benito Mussolini) dell’originale in fusione d’argento, con occhi animati da brillanti, su base in alabastro antico, presentata per la prima volta nel 1930 alla Mostra internazionale dell’orafo accolta nelle sale della XVII Biennale di Venezia, dove ottenne il primo premio e non mancò di suscitare l’apprezzamento del pubblico e della critica: Ugo Nebbia, nel recensire l’evento espositivo per la «Rivista di Venezia», a proposito di Brozzi lodava infatti «la franchezza del suo estro e l’acutezza della sua osservazione attraverso le vivacissime “cere perse” d’animaletti» e sottolineava come «la sua sapienza di compositore ed esecutore degno della migliore tradizione, non meno nobilmente spicchi in quell’incisiva testa d’aquila d’argento, cesellata ed animata da brillanti» (Nebbia 1930, pp. 20-23). Presentata a D’Annunzio il 30 giugno 1931 nel corso di una delle frequenti soste dell’artista al Vittoriale per omaggiare il “Comandante”, consegnargli doni, oggetti minuti e preziosi bibelot eseguiti su commissione (ma anche per proporgli pezzi unici, lasciandoglieli in visione perché potesse scegliere a suo piacimento, secondo una consuetudine comune a molti degli eccellenti maestri che mettevano la propria creatività al servizio dell’illustre committente), ne solleciterà l’entusiasmo, ispirandogli una delle più franche e intense dichiarazioni di amicizia e di ammirazione: «Carissimo Renato, ti farò sorridere. Io sono un cupidissimo amatore del parmense Culatello (con una T o con due?). Esausto dalla malinconia operosa, dianzi sentivo i morsi della fame […] Mentre gridavo non senza feròcia “Sùbito, sùbito, sùbito, tre fette di Culat(t)ello!” la donna appariva co’ tuoi pacchi preziosi. Il più grande aveva la forma conica della compatta cosa di fibra rossa e salata. O fratelmo, l’allucinazione della fame mi ha strappato un grido di riconoscenza e di felicità. “Brozzi! Un culatello! E come ci ha pensato?” Pongo le mani sul pacco, e sento il becco eroico dell’Aquila … Ti confesso che, per un così bello e potente saggio d’arte vera, ho dimenticato la delizia golosa.» (Lettera di D’Annunzio a Brozzi, 30 giugno 1931, cit. in Carteggio Brozzi-D’Annunzio 1920-1938, 1994, pp. 122-123 n.145).
Il bel «pezzo d’argento lavorato alla maniera antica», di un decorativismo prezioso dove le linee asciutte e monumentali, orientate verso l’imperante novecentismo, si fondono con dettagli di naturalismo ancora esplicito nella resa plastica del piumaggio risolto con sottili grafismi, fu dal poeta prontamente acquistato per la cifra di lire 6.000 (Cfr. Resoconto forniture dello scultore Renato Brozzi al 1 luglio 1931, allegato alla lettera di Brozzi a D’Annunzio del 4 luglio 1931, cit. in Carteggio Brozzi-D’Annunzio 1920-1938, 1994, pp. 125-126 n.147) insieme a un delizioso Pulcino in bronzo su base in broccatello d’Egitto antico (Gardone Riviera, Fondazione del Vittoriale, Veranda dell’Apollino), e collocato sullo scrittoio della Zambracca, la stanza adibita a spogliatoio e studiolo che precede la Stanza della Leda, dove è tuttora visibile accanto ad un servizio da penna in argento di Mario Buccellati e al calco della testa dell’Aurora di Michelangelo, con doratura eseguita dallo stesso D’Annunzio.
A.M.



Serie di n. 8 animali, [1938 post]  cinghiale cerbiatto gazzella [dida per la foto d’insieme,]
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
bronzo dorato su basi in marmi antichi e/o pietre dure, misure varie
firmati nella base: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Tacchino, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 8x5x4,5; tacchino: bronzo dorato, h cm 10
firmato sul fronte della base: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Gallo, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 6x6x3,3; gallo: bronzo dorato, h cm 10
firmato sul fronte della base: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Volpetta seduta, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 8x4,2x4,2; volpetta: bronzo dorato, h cm 12
firmato nella base a destra: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Coniglio, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 6x4x3; coniglio: bronzo dorato, h cm 8,3
firmato nella coda: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Maialino, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 8,5x4,6x4,5; maialino: bronzo dorato, h cm 5,5
firmato sulla base: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Cinghiale, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 4,5x9,3x4,3; cinghiale: bronzo dorato, h cm 7
firmato nella base a destra: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Cerbiatto, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 5,5x4x3,7; cerbiatto: bronzo dorato, h cm 9,5
firmato nella base a destra e a sinistra: “R. BROZZI”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Gazzella, [1938 post] 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
base: h cm 6,8x6x4; gazzella: bronzo dorato, h cm 9,5
(COLLEZIONE PRIVATA)

Serie di n. 6 piatti con motivi animalier nella tesa, 1940 
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmati e datati nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con pecora e agnellino nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con gazzella e piccolo nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con cinghiale e piccolo nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con fagiani dorati nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con pavoncelle nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)

Piatto con “damigelle di Numidia” nella tesa, 1940
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
vermeil, diam. cm 24,5
firmato e datato nel retro: “- R. BROZZI 1940 -”
(COLLEZIONE PRIVATA)


Gli anni Trenta scoccano per Renato Brozzi all’insegna di importanti riconoscimenti (la nomina a membro del Consiglio direttivo della Scuola dell’arte della medaglia, i successi raccolti nel corso delle diverse edizioni della Biennale di Venezia, della Quadriennale Romana e delle Mostre sindacali di Belle Arti a Parma e nel Lazio) e delle tante commissioni, pubbliche e private, molte delle quali legate ad un committente d’eccezione, il poeta Gabriele D’Annunzio, impegnato nella scelta e nella commissione di oggetti d’arredo per il suo Vittoriale, lentamente ma ormai inesorabilmente tracimato dall’iniziale concezione di «casa rustica» ad una impostazione monumentale di fredda sontuosità, da vero «Tempio della Vittoria». Col “Comandante” Brozzi è in rapporto fin dal 1920, ed è diventato nel tempo uno degli interpreti più attenti ed apprezzati delle tensioni stilistiche e della particolare concezione dell’arte del vate, grande suscitatore di entusiasmi mondani e di orientamenti stilistici, al punto da riuscire a stimolarne i furori immaginativi («Carissimo Renato, tu sei una specie di Orfeo plastico, di continuo seguito da una torma di animali viventi. Stanotte, dinanzi alle tue gazelle ai tuoi cignali ai tuoi elefanti alle ture aquile, la mia malinconia ha sospirato verso i deserti le selve le giungle le nuvole; e qualche volta è giunta di là dal mio lungo sospiro». Lettera di D’Annunzio a Brozzi, [primi ottobre 1931], cit. in Carteggio Brozzi-D’Annunzio 1920-1938, 1994, p. 129 n.151).
Anche gli oggetti che qui si presentano appaiono concepiti in prospettiva essenzialmente dannunziana, per la consentaneità di gusto e di cultura con le opzioni artistiche care al poeta, e particolarmente con quel déco asciutto (più sobrio e sintetico senza rinunciare ad essere rappresentativo nella scultura, più leggiadro, descrittivo e prezioso nella decorazione propriamente detta) che connota alcuni degli artisti a lui più intimamente legati fra i tanti chiamati a raccolta, da Arrigo Minerbi allo statunitense Moïsés Ezekiel, dal terzetto triveneto di artisti-artigiani di educazione secessionista (Guido Marussig, Guido Cadorin e Napoleone Martinuzzi) all’«orafo eccellentissimo» Mario Buccellati.
Ad un concetto esornativo dell’arredamento arricchito di sottintesi ammiccamenti, perfettamente in sintonia con la scenografia allusiva, carica di cimeli, feticci ed oggetti simbolici onusti di messaggi cifrati che domina le stanze della casa sul Lago a Gardone, si lega sia la serie di sei piatti con motivi animalier nella tesa (un leit motiv dell’artista traversetolese, come documentano gli innumerevoli disegni preparatori, stupefacenti per quantità e varietà, conservati presso l’omonimo museo), sia la serie di otto sculturine a cera persa raffiguranti animali su basi in marmi antichi e pietre dure a sezione tronco-piramidale, che riprende nei soggetti l’analogo corpus di «cere perdute» fuse in argento «dorato poi a fuoco alla maniera antica, in maniera che questi pezzi rimangano unici» (Lettera di Brozzi a D’Annunzio, 14 giugno 1934, cit. in Carteggio Brozzi-D'Annunzio 1920-1938, 1994, pp. 174-175 n. 208), tuttora esposto nel corridoio d'ingresso del Museo dannunziano (Gardone Riviera, Fondazione del Vittoriale). Nel carteggio intercorso tra l’artista e il poeta dal giugno 1934 al giugno 1935 (Cfr.: Carteggio Brozzi-D'Annunzio 1920-1938, 1994, pp. 175-176, 180-184, 187-188, 190, 204-207) si fa frequente cenno ai preziosi «bronzetti conflàtili» (termine sapientemente ricercato nel lessico delle origini, che nel vocabolario dannunziano, vibrante e prodigiosamente ricco, significa appunto ottenuti mediante fusione), dove metalli preziosi e pietre dure dalle tonalità affascinanti sono accostati con disinvolta raffinatezza secondo un gusto di straordinario effetto decorativo comune ai più affermati maestri dell’oreficeria del tempo, da Alfredo Ravasco a Mario Buccellati. Molto apprezzati dal “Comandante” («Stanotte, come più soffrivo, ho fatto portare al mio capezzale le stupende “cere perse”; e ho ricevuto dalla tua arte, o animaliere veramente orfico, una fresca tregua. Ho passato le prime ore del mattino a disporre i nove amici, così che sian mescolati alla mia intima vita cotidiana. Nel guardarli e nell’interrogarli mi sembra di eguagliare il tuo pollice palstico». Lettera di D’Annunzio a Brozzi, 15 settembre 1934, cit. in Carteggio Brozzi-D'Annunzio 1920-1938, 1994, p. 183 n. 215), furono utilizzati in funzione decorativa anche per la tavola della Stanza della Cheli (sorta di magma estetico ed esoterico di forme e colori, nello sfavillìo di lacche rubro-dorate e di vetrate alabastrine a geometrici disegni, in sintonia con gli orientamenti del gusto dannunziano), «invasa da bestiole di bronzo e pietre dure d’ogni forma e colore», sulle quali il poeta, che mai prendeva i suoi pasti presente qualcuno, amava ricamare torbide leggende al solo scopo - per sua esplicita ammissione, secondo la testimonianza di Ernesta Rinaldi Rota, madre del compositore Nino Rota (Cit. in Quesada [1988], pp. 20-21, nota 18) - di scandalizzare sino al pianto le signore per bene.
La serie esposta era originariamente costituita da nove “cere perdute” a tematica animalier e da un sontuoso centrotavola raffigurante una coppia di maschi di “damigelle di Numidia” in lotta per una femmina accovacciata al centro della composizione (una particolare varietà di gru, molto amata dall’artista e spesso ritratta in disegni, rilievi a sbalzo e nella piccola statuaria di arredamento). Di quest’opera straordinaria, preziosissima per materiali e tecnica (con la quale, non a caso, Brozzi si era fatto immortalare nei primi anni Quaranta in una famosa foto ricordo donata al Comune natale. Cfr. Traversetolo, Archivio Museo “Renato Brozzi”, inv. FP 102), come della nona scultura della serie raffigurante un airone cinerino, si sono purtroppo perse le tracce.
A.M.


Leonesse, [1935-1936 ca]
PIETRO CARNERINI (TRAVERSETOLO, 1887-GORGONZOLA, 1952)
bronzo patinato, h  cm 30, lungh.  cm 63, prof. 30 
firmato nella base, al centro: “P. Carnerini”
COLLEZIONE PRIVATA


La coppia di leonesse è opera del tutto inedita di un artista ancor oggi poco noto al grande pubblico, che fu uno dei più interessanti maestri dell’arte decorativa italiana in un’epoca che vide sì il fiorire delle arti della decorazione, ma non frequentemente il profilarsi di autori di spiccata originalità. Molto versatile, di un’esuberanza inventiva orientata preferenzialmente verso l’animalistica, trattata in forme e modi diversi (dalla piccola statuaria d’arredamento alla grande scultura, dal mobile alla suppellettile sacra) ma sempre con una straordinaria padronanza tecnica, che riusciva a mantenere ai soggetti della sua ampia iconografia zoomorfa una sorta di carnale vivezza e di naturale suggestione, non ebbe (almeno per quanto si conosce) committenti illustri, come accadde al conterraneo Renato Brozzi che, trovando in Gabriele D’Annunzio il proprio fervido ispiratore, acquisì grazie a lui fama e prestigio. Rispetto a Brozzi, cui peraltro lo univano oltre alle umili origini e all’apprendistato presso la mitica Fonderia Baldi di Traversetolo, l’amoroso interesse per la natura e i prediletti animali e il senso aulico di un eletto e speciale artigianato, Carnerini avrà una ben più movimentata e sofferta vita artistica, e di suo un carattere introverso e schivo, ma anche il dono del riserbo e del distacco che non gli consentivano agganci troppo stretti con programmi di regime.
Il 23 novembre 1935 Carnerini scrive alla famiglia di essere giunto da due giorni nella capitale francese (il viaggio era stato programmato fin dai primi di maggio) e di attendere di essere ricevuto dal cardinal Jean Verdier, arcivescovo di Parigi, dal quale spera qualche importante commissione. Non conosciamo l’esito di tale incontro, ma forse non dovette essere quello atteso, visto che alcuni mesi dopo l’artista, nuovamente speranzoso, dichiara di essere stato presentato ad un altro eminente prelato, monsignor Luigi Maglione, già nunzio apostolico in Francia, creato cardinale di curia da Pio XI proprio nel 1935 (Cfr. Lettera di Carnerini alla famiglia, 7 luglio 1936, Archivio privato). È questo in realtà il suo secondo soggiorno parigino: partito a maggio, l’artista era rientrato a Roma l’8 giugno, forse perché deluso nelle sue aspettative di lavoro o forse per aver agio di riorganizzare con calma lo studio (nel frattempo trasferito da piazzale Flaminio 23 a via Passeggiata di Ripetta 19 A) in vista di una nuova partenza, come sembra di poter dedurre da un suo biglietto da visita, indirizzato a Brozzi: «In questi giorni, causa il trasloco dello studio e pagare deposito, anticipo e arretrati, sono rimasto in secca quattrinaria! Se puoi favorirmi qualche soldo mi faresti un vero favore. Fra pochi giorni riscuoterò certamente perché il Vescovo di Bengasi mi à scritto in proposito» (Biglietto di Carnerini a Brozzi, s.d. ma luglio 1935, Traversetolo, Archivio Museo “Renato Brozzi”). A Parigi Carnerini è accolto fraternamente dall’amico pittore Odoardo Gherardi, che colà si era trasferito nel gennaio del 1925, entrando in contatto con artisti di buon nome, da Utrillo a Sepo (Sergio Pozzati) a Cappiello, oltre che col famoso gruppo degli Italiens de Paris, attivo fra la capitale francese e l’Italia con il sostegno del critico di origine polacca Waldemar George. Dieci mesi dopo la seconda partenza, Pietro indirizza all’amico Brozzi una lettera (dal cui indirizzo risulta alloggiare non più presso Gherardi, in rue Nôtre Dame de Nazaret 50, ma in rue Belloni 7 presso un non meglio identificato “Nico”) dove, scusandosi per non essere ancora riuscito a saldare il vecchio debito, dichiara: «Qui sto lavorando e come principio non sono malcontento. Questa città enormemente grande, mi à disorientato un po’, ma ora, data la grande rapidità delle comunicazioni, mi sono ripreso subito. Ò visitato il Louvre, che in parte già conoscevo, e vi sono cose veramente belle, però sono quasi tutte Italiane, e questo fa un grande piacere al mio animo d’Italiano non mai tanto come ora» (Lettera di Carnerini a Brozzi, 30 settembre 1936, Traversetolo, Archivio Museo “Renato Brozzi”). A Parigi Carnerini ottiene «commissioni per diverse piccole sculture» (Mezzadroli 1981, p. 23) ma nessun lavoro di grande respiro plastico. Forse per questo, o forse per la sottile inquietudine che la vita della metropoli e il tumulto di tante tendenze di sconcertante novità gli ispirano, decide improvvisamente di rientrare in patria.
L’opera in oggetto, fra le più affascinanti per taglio compositivo, qualità tecnica e forza di sintesi pur nell’immediatezza della ripresa del vero (che la apparentano strettamente al Cammello assalito da un leopardo di collezione privata, ripr. in Mezzadroli 1981, p. 12), va appunto collocata nel breve periodo parigino, come attesta il marchio della fonderia Les Neveux de Jean Lehmann, una delle più importanti di Parigi, cui ricorrevano molti artisti di fama consolidata e riconosciuta, quali Dimitri Chiparus e Roberte Jeanne Colinet.
A.M.


Venere con Amore [1936-1939 ca.]
ALBERTO BAZZONI (SAN NICOMEDE DI SALSOMAGGIORE, 1889-MILANO, 1973)
terracotta patinata, h cm 79 ca
firmato sul fronte della base, in basso a destra: “A. BAZZONI”
COLLEZIONE PRIVATA

Dopo aver esordito nell’ambito della monumentalistica ai Caduti con una serie imponente di opere realizzate dal 1922 al 1926 a Salsomaggiore, Gualtieri, Collecchio, Montecchio Emilia, Bardi, San Pancrazio, Cortile San Martino, Borgo San Donnino, Reggio Emilia,Viadana (Cfr. Mavilla 2008, pp. 154, 162 nota 18), lo scultore si trasferisce a Milano, dove diventa uno dei soci di spicco della Camerata degli Artisti Combattenti d’Italia insieme al pittore e scrittore ferrarese Noël Quintavalle (che opera sotto lo pseudonimo di Noelqui), al ritrattista vercellese Edgardo Rossaro, allo scultore fiorentino Romano Romanelli. Nel 1928, dal 15 novembre al 2 dicembre, il sodalizio di amici ex combattenti indice la Terza Esposizione Sociale alla Galleria Bardi di Milano: nell’occasione Bazzoni espone insieme ai pittori Leonida e Rimma Brailowskij e al bergamasco Alberto Vitali una ventina di sculture di soggetto biblico (Caino e Abele, Giuditta e Oloferne) e mitologico (Apollo e Marsia, Pluto e Proserpina), risolte «miscelando un’attenzione per la scultura manierista toscana (Giambologna) al déco parigino più legato alla lezione di Bourdelle» (Scardino 1994, p. 8) ed alcune composizioni di ispirazione populista (Figura di contadina) «dai ritmi conchiusi e solidi, con echi intelligenti di Andreotti e di Rambelli» (Ibidem). Nello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione gli assegna, senza concorso, l'incarico per la decorazione plastica della Biglietteria e della Palazzina Reale della Nuova Stazione Centrale di Milano, che l’architetto Ulisse Stacchini stava allora erigendo. Nel realizzare i bassorilievi (sei medaglioni simboleggianti i Trasporti antichi e moderni, altri sei ispirati alla storia di Roma, quattro formelle con figure in eroica nudità alludenti alle fasi del giorno affiancate dai dodici simboli zodiacali e il Ciclo storico della Casa Savoia) e le statue (Industria, Commercio, Scienza, Agricoltura e i gruppi della Guerra e della Pace) Bazzoni si muove su arie e ritmi déco di arida eleganza, e se riprende iconografie tradizionali non manca di svuotarle di ogni ridondanza oratoria. La solenne inaugurazione nel giugno 1931 segnerà per l’artista un vero trionfo, purtroppo funestato dalla prematura scomparsa della moglie, Bianca Ziveri, per la quale egli realizza nel Cimitero Monumentale di Milano il bellissimo monumento funebre con Tre Parche in bronzo, dal respiro classico e dalla solennità arcaicizzante nella sottile riduzione di effetti descrittivi, in linea con la più stringata tradizione monumentale europea. Nel 1933 espone al Palazzo della Permanente di Milano, dove presenta i bronzi Baccanale e Pescatore, acquistato nel 1935 dalla Galleria d'Arte Moderna. Nel 1934 partecipa al concorso per la statua della Giustizia, da collocarsi sull'atrio del nuovo Palazzo di Giustizia di Milano eretto da Marcello Piacentini: il suo bozzetto è segnalato tra i migliori, ma il premio non viene mai assegnato. Due anni dopo, per le pareti del primo piano dello stesso Tribunale milanese Bazzoni esegue il rilievo La Caduta di Lucifero, ancora una volta di gusto francisant nel segno del più nitido déco parigino ma anche dell’Andreotti più accattivante e decorativo. Sempre in quell’anno, l’inclinazione filo-francese lo spinge a trasferirsi a Parigi, dove, nel dicembre, allestisce una mostra personale con una cinquantina di opere presso la Galleria Charpentier, inaugurata dall’ambasciatore d’Italia Vittorio Cerruti. A Parigi si dedicherà alla produzione di terrecotte brunite e piccoli bronzi dalle forme intrise dal lievito anche concettuale della paganità: ritratti, composizioni allegoriche, scene e figure ispirate alle tematiche care al mito o all’arcaismo greco.
Anche la bella scultura in oggetto potrebbe riferirsi a questo primo soggiorno nella capitale francese, cui la apparentano sia l’arcaismo nobile del tema, sia le aggraziate movenze manieriste calate nelle armonie suadenti di una plastica alla quale l’esempio dell’Oriente trasmette (specie nei volti, vagamente cinesoidi, alla Rambelli) un’inconfondibile nota esotica, sia infine quel classicismo elegante che fa tesoro dell’insegnamento dei grandi della scultura contemporanea, come lo slavo Ivan Mestrović e soprattutto il francese Émile-Antoine Bourdelle, ma anche delle novità più palpitanti della ricerca plastica e costruttiva, tesa ad una dimensione archetipa della forma e ad un sempre più rarefatto equilibrio della composizione. Allo scoppio della guerra l’artista rientrerà momentaneamente in Italia dove, secondo la testimonianza della figlia Maria Teresa, sarebbe stato coinvolto nella decorazione dell’erigenda cittadella dell’E42 (Esposizione Universale del 1942) la cui monumentale costruzione, iniziata con grande entusiasmo nel 1937 dopo la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma, «faro di civiltà e del fascismo» (Guidoni 1992, p. 19), si sarebbe arenata gradualmente nel 1941 per far fronte alle esigenze di guerra. Dopo la fine del conflitto, Bazzoni vivrà una seconda stagione parigina dal 1945 fino al rientro definitivo a Milano nel 1950.

A.M.

Bichi, 1942
LUIGI FRONI (ALSENO, 1901-PARMA, 1965)
bronzo, h cm 47
PARMA, COLLEZIONI D’ARTE FONDAZIONE CARIPARMA
BIBLIOGRAFIA: Luigi Froni scultore…, 1995, pp. 19, 29, cat. n. 9 (con bibl. prec.)
ESPOSIZIONI: Milano 1958, Sorbolo 1989; Parma 1995

A partire dagli anni Trenta Froni si impegna particolarmente nel trattare il difficile tema del ritratto (asse portante della sua ricerca, sempre in bilico fra il mondo del reale, del “tipico” o addirittura del grottesco suggeriti dalla disarmonia del quotidiano, e quello dell’ideale, nella sua immagine più arcaica, solenne e pura) in una serie di teste riconducibili al versante familiare (la prima moglie Antonia, le figlie Bichi e Dadi), dal respiro classico volutamente ricercato nell’esplicita volontà di uscire dalle strettoie del realismo descrittivo in direzione di una forbitezza purista che ha le sue radici da un lato nella grande scultura del passato quattro-cinquecentesco ed in particolare in quello «stile neodonatelliano che si andava intanto affermando con Francesco Messina, Arturo Dazzi, Libero Andreotti» (De Grada 1995, p. 24), indagato come problema di forma e non di mera ripresa citazionistica, dall’altro in quella stilizzazione come per risucchio di ogni esuberanza descrittiva, tipica della prima lezione wildtiana, che dà alla sua scultura una sostanza plastica levigata e tersa.
Anche la bellissima testa di Bichi, che fonde insieme seduzione e sinteticità del modellato, va nella direzione di questa raffinata sobrietà di gusto arcaicizzante che implicitamente inneggia a valori semplici e solenni. Quasi «una lunga, affettuosa carezza» alla figlia (Dall’Acqua 1995, p. 29), in cui tenerezza, dolcezza, asciuttezza e pensosa concentrazione sono dosati con la sapienza che riconosciamo allo scultore, nella consapevolezza della felicità miracolosa e irripetibile di quella pubertà in fiore, senza presagi verso il futuro che si affaccia, ma anche della precarietà di quell’attimo di vita, di quel passaggio dolce ed emozionato all’età adulta, còlto ed eternato nel suo mistero quotidiano.
A.M.

 


 
PARMA FRA PACE E GUERRA

Maschera di Mussolini, [1923]
LUIGI FRONI (ALSENO, 1901-PARMA, 1965)
gesso, h max cm  64, diam base cm 32,5  
PARMA, ISTITUTO D’ARTE “PAOLO TOSCHI”
BIBLIOGRAFIA: Pezzani 1923; Luigi Froni scultore…, 1995, p. 13
ESPOSIZIONI: Parma 1923

Presentata al XXII Premio Artistico perpetuo nel 1923, dove si faceva notare sia per la somiglianza che «per il vigore dei suoi piani larghi» (Pezzani 1923), la Maschera di Froni costituisce un precoce esempio di quella celebrazione del mito vivente di Mussolini a cui la cultura italiana partecipò quasi unanime, incrementando un’attività di incensamento che diventò presto abito mentale e costume sempre più diffuso con l’inoltrarsi del ventennio (nel 1934 nella vicina Piacenza l’ordine degli avvocati bandiva un concorso per un busto-ritratto di Mussolini da collocarsi nell’atrio del tribunale, al quale partecipavano tutti gli scultori locali, da quelli ormai affermati alle più giovani promesse), e che dilagò senza freni dopo il 9 maggio 1936, giorno della proclamazione dell’impero, quando l’immagine del duce divenne l’onnipresente filigrana dell’immagine del fascismo, dell’Italia e degli italiani. Un’immagine che ambiva a fondersi sia con la glorificazione della nuova romanità imperiale, riapparsa sui colli fatali di Roma dopo l’impresa etiopica («Comincia una nuova storia d’Italia» annunciava nel 1936 il filosofo Giovanni Gentile, che pure in precedenza aveva protestato per l’eccesso di romanità retorica) sia con la consapevole “pietrificazione” della propria immagine compiuta dal duce stesso, sempre più incline ad atteggiarsi a statuario mito vivente, in linea con l’ambizione di consegnare il fascismo e la propria fama all’eternità, consacrando la continuità spirituale fra la Roma antica e la Roma fascista, fra i grandi imperatori e il duce imperiale, immortalato nella pietra o nel bronzo, come avrebbe dovuto avvenire col bronzeo Colosso di Aroldo Bellini, una gigantesca statua raffigurante Ercole con le inconfondibili sembianze mussolinee (86 metri, il doppio della statua della Libertà) che avrebbe fatto impallidire il ricordo del leggendario Colosso di Rodi, da collocarsi a Roma nel foro Mussolini alle spalle del podio dell’oratore nell’immenso Arengo delle Nazioni destinato a sostituire Piazza Venezia nel cuore degli italiani, un enorme piazzale per le adunate capace di accogliere 400.000 persone, che si richiamava all’altrettanto gigantesco Zeppelinfeld di Norimberga, dove Hitler teneva i suoi discorsi (in realtà il cantiere della statua dovette presto interrompersi: le ristrettezze finanziarie in cui il regime fascista venne a trovarsi fra il 1936 e il 1937 dopo l’aggressione all’Etiopia e le sanzioni economiche della Società delle nazioni, imposero un rinvio sine die sia al completamento del Colosso, sia alla costruzione dell’Arengo). Una “pietrificazione” in statua vivente, già proiettata nella leggenda dei secoli futuri, irraggiungibile nella gloria della sua solitaria grandezza, che appare evidente in fotografie, cinegiornali d’epoca, e nei commenti degli stessi collaboratori («Non l’uomo, ma la statua stava dinnanzi a me. Dura, pietrosa statua…» scriveva nell’agosto del 1936 in una accorata nota di diario Giuseppe Bottai, reduce dalla guerra d’Etiopia. Cfr. Diario 1935-1944, 1982, pp. 109-110). Non a caso la fotografia scelta da Mussolini per il nuovo volume dei suoi scritti e discorsi, pubblicato nel 1936 e dedicato alla conquista dell’impero (Scritti e discorsi dell'impero (novembre 1935-XIV - 4 novembre 1936-XV E.F.), vol X, Milano, Hoepli, 1935-1936) prevedeva appunto una scultura raffigurante la sua testa, con l’elmo del guerriero e il volto irrigidito in una marmorea severità. Un’iconografia che Froni (forse ispirato dalle pose marziali e scultoree che Mussolini era uso assumere quando si mostrava in pubblico)  aveva fissato con notevole anticipo, in linea coi più aggiornati orientamenti di un’arte ormai avviata verso destini monumentali, pur senza rinunciare del tutto a pagare ancora un tributo a quella stringatezza formale, sdegnosa di qualunque tipo di volgarità e di manifesta oratoria, a quel linearismo secco ed elegante che avevano caratterizzato i suoi esordi nel solco di una modernità arida e fredda alla Wildt.
A.M.

Allievi della Scuola di Scenografia, [1928-1929]
ENRICO BONARETTI (PARMA, 1893-1977)
olio su cartone, cm 91,5 x 75,5
firmato in bs. a ds., a pennello: “Bonaretti”
PARMA, ACCADEMIA NAZIONALE DI BELLE ARTI
BIBLIOGRAFIA: Bruno Zoni 1995, p. 130;  Agazzi 2007, pp. 255, 318 cat. n. 121

Lezione di Scenografia, [1939-1940]
ENRICO BONARETTI (PARMA, 1893-1977)
olio su cartone, cm 75 x 59,8
firmato in bs. a ds., a pennello: “Bonaretti”
PARMA, ACCADEMIA NAZIONALE DI BELLE ARTI
BIBLIOGRAFIA: Agazzi 2007, pp. 256, 318 cat. n. 122

Docente di scenografia presso il Regio Istituto d’Arte “Paolo Toschi” a partire dal 1925, l’artista fissa in queste due istantanee sia gli allievi più promettenti del suo corso - probabilmente quelli del triennio 1928-1931, data la presenza al centro del gruppo (in cui si riconoscono, da sinistra: Arturo Frigeri, Arnaldo Spagnoli, Nino Aiassa, Nullo Musini, Egidio Marulli, Guglielmo Filippini) di Bruno Zoni, iscrittosi nell’anno scolastico 1928-1929, e la cui acerba genialità doveva aver subito affascinato maestri e compagni - sia l’ampio, severo spazio dell’aula di architettura (attuale aula magna) dove si tenevano le lezioni alla fine degli anni Trenta, come documenta una foto presso l’Istituto stesso, datata 1939-1940, segnalata da Nicoletta Agazzi (2007, p. 318 cat. 121). Precedentemente, le lezioni della sezione si svolgevano nell’immenso, suggestivo solaio del Teatro Regio, eletto a scuola di scenografia dal pittore Girolamo Magnani, grande artista dell’illusione che meglio di chiunque altro era riuscito a portare sul palcoscenico l’incanto della profonda sostanza romantica dell’opera di Verdi, che non a caso lo prediligeva. Nel triennio 1927-1930, secondo la testimonianza resa da Aristide Barilli in un articolo purtroppo senza data dedicato a Goliardo Padova, l’Istituto contava «non più di una sessantina di allievi per tutte e tre le sezioni di decorazione, scenografia ed edilizia, e pochi e validi insegnanti; basta ricordare Baratta, Marussig, Marzaroli, Berzolla, Raimondi, Robuschi per le materie artistiche e la prof. Giuseppina Tassoni, fresca di laurea. Nella mia classe eravamo in pochi, sei o sette, e con me erano, oltre a Padova, Carlo Mattioli, Ferdinando Paini, Dall’Aglio, il salsese Maestri e il piacentino Federico Ligabue» (Dall’Acqua 2006, p. 117).
Effettivamente, l’Istituto d’Arte di Parma in quegli anni ancora risentiva del periodo di smarrimento seguito alle trasformazioni nazionali in atto nel settore dell’educazione artistica, a seguito delle leggi gentiliane che avevano accentrato nelle grandi città le accademie, istituendo nei centri minori scuole aventi un fine eminentemente pratico, che volevano essere «con spirito e misura moderna, la continuazione di quelle umili ma gloriose botteghe d’arte del rinascimento italiano, dalle quali uscirono celebri maestri. Infatti in queste scuole l’insegnamento artistico è sempre accompagnato e sostanziato dalle sperimento tecnico» (G. T. 1933, p. 261). Istituito nell’anno scolastico 1924-1925, l’Istituto comprendeva tre sezioni: decorazione, edilizia e scenografia, ed era frequentato da giovani provenienti non solo da Parma e dalla sua provincia, ma anche da province limitrofe. A seguito dell’assunzione della direzione da parte del pittore Guido Marussig (che la terrà per undici anni, fino al trasferimento nel 1939 alla cattedra di Ornato a Brera), il “Toschi” era diventato protagonista di numerose iniziative tese a restituirgli l’antico splendore e decoro: dal riordino delle raccolte della Reale Parmense Accademia, di antiche e grandi tradizioni, in un Museo (comprendente oltre a numerose opere dei secoli XVIII e XIX, i torchi e gli strumenti provenienti dal celebre studio d’incisione di Paolo Toschi, una collezione Bartolini e un gabinetto di disegni e stampe), all’istituzione nel 1935 di una Mostra permanente di elaborati scolastici al pianterreno, aperta gratuitamente al pubblico ogni giorno (Cfr. Mostra permanente di elaborati scolastici …, 1935, p. 44), alla partecipazione a eventi espositivi locali o nazionali, quali la Prima Mostra del Sindacato Belle Arti di Parma nel 1932, la Mostra dell’arredamento artistico tenutasi a Roma a Valle Giulia nel 1933 per iniziativa della Direzione Generale di Belle Arti (dove l’Istituto parmense ottenne lusinghieri consensi soprattutto per il lavori della sezione di decorazione: un’originale fontana di Vittorio Mangoni, un bassorilievo di Goliardo Padova, una finta porta di Aristide Barilli, un affresco con motivi di opifici di Carlo Mattioli. Cfr. Il Regio Istituto d’Arte di Parma …, 1933, p. 78), la VI Triennale di Milano, tenutasi al Palazzo dell’Arte dal 30 maggio all’ottobre del 1936, dove meritò il Gran Premio, riconoscimento particolarmente significativo in un’edizione che si proponeva di mostrare il meglio di un linguaggio «nazionale» e «moderno» sul tema non solo dell’architettura ma dell’abitazione, affrontato come problema estetico della casa, ma anche come problema tecnico, sociale, economico, igienico e urbanistico (Cfr. Barella 1936, p. 7).
A.M.

 

Culla offerta dalla Federazione degli Artigiani al neonato Romano Mussolini, [1928]
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
modellino in gesso: h cm 32, lungh cm 55
TRAVERSETOLO, MUSEO “RENATO BROZZI”
BIBLIOGRAFIA: Renato Brozzi…, 1989, p. 21; Mavilla 1996, pp. 114, 117, figg. 39-40 

Il 28 gennaio 1928 Renato Brozzi scriveva al “Comandante”: «Le invio alcune fotografie di un ultimo mio lavoro commessomi dall’Artigianato Italiano da offrire in dono a Romano Mussolini. È una culla e questa culla doveva dire molte cose… Ho fatto il mio meglio, anche dato il tempo che avevo a disposizione. Ma più di tutto ho cercato nel creare l’oggetto di dire una parola nuova e antica». A scopo esplicativo l’artista univa al suo messaggio i suggerimenti iconografici che la Federazione degli artigiani gli aveva inviato perché vi si attenesse nel progettare la culla per l’ultimo figlio del duce: «La culla Fascista è il simbolo più semplice e più potente insieme della vita nazionale rinnovellata. Deve avere la bellezza e la forza espressiva delle concezioni primitive. Il suo rullo deve essere dolce e profondo come se intorno ad essa echeggiasse tutta la terra nostra commossa di una tenerezza nuova. Il suo aspetto dev’essere nudo come le pure cose nascenti; forte come le cose di cui si potrà costruire; essenziale. Deve essere una culla rurale. Rurale e marinara: intorno ad essa s’ha da sentire l’aria profumata dei prati e dei campi, l’aria infinta, ardimentosa del mare. Tutto ciò deve apparire nei simboli decorativi. Pensatela alzata su uno scoglio o nell’ombra verde oro di un bosco. I motivi decorativi devono essere quelli eterni che la natura nostra ci offre: il delfino, le foglie e il fiore, il cardellino, il frutto, la spiga, l’agnello, la stella, l’arco e la freccia, e quelli mutevoli della nostra fortuna civile. La vela, il remo, la ruota, l’ala. Si potrebbe tener presente la Lupa tratta[ta] diversamente: il fanciullino sul [sic] con la madre Lupa. Volendo e potendo ci sarebbe da raccogliere le linee del destino di questo figlio del fascismo, rinascente sempre in verginità nuova, in due visioni o quadri: 1°) Il Centurione Fascista che racconta ai fanciullini la Marcia su Roma. 2°) L’altro Italo Vittorio Romano che salpa solo e affronta il grande mare aperto, sfrecciando nel cielo alto il suo pegno di gloria» (Lettera di Brozzi a D’Annunzio, 28 gennaio 1928, cit. in Carteggio Brozzi-D’Annunzio 1920-1938, 1994, pp. 56-59, n. 65). Insomma, una sorta di summa dei motivi iconografici e stilistici più cari alla mistica fascista, una vera «insalata di concetti» secondo l’arguta definizione dell’artista, che certo non poteva giovare alla sua fantasia. L’imposizione di tematiche tanto ingombranti e asservite a strategie demagogiche, unita alla totale indifferenza ostentata dal committente nei confronti dell’aspetto formale della creazione artistica, costringeranno Brozzi ad un vero tour de force progettuale, nel tentativo (mai del tutto riuscito) di adeguarsi agli imperativi della propaganda rurale e demografica del regime. Più di quaranta i disegni preparatori (Traversetolo, Archivio Museo “Renato Brozzi”, Fondo Disegni e Progetti), in cui trionfano tutti gli orpelli pittoreschi del fascismo, dalla lupa capitolina al fascio littorio «simbolo della missione gloriosa di Roma» (Giglioli 1932, p. XIII), per giungere al progetto definitivo, che prendendo finalmente le distanze dal ciarpame più facilmente propagandistico propone una soluzione arcaicizzante, dalla forma semplice e severa, che richiama i mobili rustici tipici dell’arredamento contadino. In linea con lo spirito decorativo del tempo, quel revival del gusto per il folclore regionalistico che caratterizza ampiamente le arti applicate italiane nella prima metà degli anni Venti e che le edizioni del 1923 e 1925 dell’Esposizione Internazionale di Arti Decorative alla Villa Reale di Monza avevano celebrato e codificato, la culla per Romano Mussolini si richiama agli analoghi manufatti della tradizione rurale. Robusta e solenne nelle linee squadrate e vigorose, è resa però lussuosa dalla maestria dell’esecuzione e dalla preziosità delle applicazioni in bronzo dorato (l’aquilotto impostato come la polena di una nave, lo stelo per sostenere il padiglione, flessibile e resistente come una lenza da pesca, la coppia di delfini ai lati della testiera), che per la loro stessa qualità decorativa perdono la fisionomia di ridondanti motivi celebrativi per ritrovare una più libera aulicità.
A.M.


Via Crucis per la Cattedrale di Bengasi, [1932-1934 ca]
PIETRO CARNERINI (TRAVERSETOLO, 1887-GORGONZOLA, 1952)
modello in gesso, cm 80,7 x 75,5 x 9,5
TRAVERSETOLO, CHIESA PARROCCHIALE DI SAN MARTINO
BIBLIOGRAFIA: La cattedrale di Bengasi …,1934, p. 4; Mezzadroli 1981, pp. 16-17, fig. pp. 18-19; Ciccotti 2009, p. 10; Pietro Carnerini …, 1993, pp.18, 19 tav. 5, 46-47

Nel 1928, grazie ai buoni uffici di Guido Corni, governatore generale della Somalia dal 1º giugno 1928 al 1º luglio 1931, Carnerini ottiene l’incarico da padre Fulgenzio Lazzati, amministratore apostolico e vescovo di Mogadiscio dal 1931 al 1932, di ornare la Cattedrale con altorilievi in marmo ispirati a motivi francescani. In pochi mesi di assiduo ed intenso lavoro l’artista modella «tre grandissime lunette, gettate poi in materia solida, policromate, dorate e patinate sì da farne risultare tre autentiche opere d’arte cristiana, intonatissime all’ambiente dovuto al chiaro ed illustre architetto conte Ing. Vindone di Torino» (Luperini 1932, p. 133). Oltre alle lunette, raffiguranti Il trionfo della Croce fra Santi francescani (lunetta centrale sopra l’altar maggiore), un’allegoria di San Francesco e le creature (lunetta a sinistra) e Il miracolo di Santa Chiara che alza l’Ostia in difesa del Chiostro contro i saraceni (lunetta a destra), Carnerini progetta per la cattedrale, solennemente inaugurata nel marzo di quello stesso anno alla presenza di Umberto di Savoia, due lampadari e due candelabri (eseguiti in ferro battuto dalla Regia Scuola Professionale “Fermo Corni” di Modena), i confessionali e due angeli con funzioni di sostegno al quadro raffigurante la Vergine Consolata di Torino, offerto al duomo da questa città (Ibidem). Dopo la caduta del regime del dittatore Siad Barre, nel 1991, gran parte della cattedrale e degli edifici del vicariato vengono distrutti, le tombe dei quattro vescovi italiani profanate, i simboli religiosi frantumati, il grande crocifisso mitragliato. Oggi neppure di queste rovine resta traccia, perché sul luogo dove sorgeva il duomo si apre solo un’ampia spianata.
Mentre è a Mogadiscio, Carnerini entra in contatto con un gruppo di artisti italiani che lavorano in Somalia (Cfr. Ciccotti 2009), da Cesare Biscarra, chiamato a realizzare la monumentale Madonna con Bambino da collocarsi sull’altar maggiore della cattedrale, allo scultore Alberto Neiviller, autore nel 1938 (come lo stesso Pietro) di un Busto ritratto di Rodolfo Graziani, nominato vicerè d’Etiopia l’11 giugno del 1936 dopo la rinuncia di Badoglio. Tutte opere sulle quali, con la fine dell’effimero impero coloniale il 5 maggio 1941 (esattamente cinque anni dopo la conquista italiana), e la conclusione della guerra, si è abbattuta la damnatio memoriæ: distrutte, mutilate o disperse, come gran parte delle opere “africane” dell’artista traversetolese, fra le quali appunto l’imponente Via Crucis per la cattedrale di Bengasi, realizzata in marmo (materiale prediletto insieme al noce e alla radica per gli arredi “coloniali”) su commissione di Rodolfo Graziani (Pietro Carnerini …, 1993, p. 47) probabilmente fra il 1932 (anno in cui si vanno concludendo i lavori di edificazione del maestoso edificio, progettato nel 1929 insieme al vescovado dagli architetti Ottavio Cabiati e Guido Ferrazza, giovani leve del professionismo milanese, che con Alberto Alpago Novello firmano proprio in quell’anno il piano regolatore della capitale della Cirenaica. Cfr. Tomasini 1932, pp. 37-39) e il 1934, dal momento che nel giugno, rientrando in Italia, Carnerini rivela in una lettera ai familiari di aver inviato a «L’Illustrazione Vaticana» le foto dell’opera, di cui è particolarmente orgoglioso. La soddisfazione dell’artista era peraltro ben giustificata: al termine di un minuzioso lavoro di documentazione compiuto attraverso un pellegrinaggio in Terrasanta di cui restano evidenti tracce «nella voluta tipizzazione semitica dei volti» (Mezzadroli 1981, p. 17), Pietro era riuscito a raccordare l’originalità esotica dei soggetti con la specificità del tema, restituendoci il senso illeso di una inesausta tensione di racconto, ma era anche riuscito a toccare uno dei suoi maggiori vertici espressivi, testimoniando al contempo la pertinenza del proprio linguaggio con un gusto specifico del clima del momento, in bilico tra due fenomeni forti e caratterizzanti, déco e Novecento, grazie alla fusione di una leggerezza ancora déco nella stilizzazione delle forme con un plasticismo solido e solenne d’esplicita impronta novecentista. I lavori eseguiti nelle città dell’impero saranno inoltre gli unici a regalargli all’epoca una discreta notorietà: nel marzo del 1934 «L’Osservatore romano» pubblicava un articolo sulla cattedrale di Bengasi e sull’arte sacra missionaria con le immagini di quasi tutte le formelle della Via Crucis, e nel dicembre l’artista era ricevuto dal re, cui presentava un album di foto di opere e disegni eseguiti in Africa, «molto gradito» dal sovrano, che lo accoglieva con affabilità paterna (Pietro Carnerini …, 1993, p. 47).
A.M.

Il grande inizio, 1934
GOLIARDO PADOVA (CASALMAGGIORE, 1909-PARMA, 1979)
olio su cartone telato, cm 110 x 128
firmato e datato in basso a destra: pa/do/va XIII; intitolato sul verso
PARMA, COLLEZIONI D’ARTE FONDAZIONE CARIPARMA
BIBLIOGRAFIA: Quintavalle 2006 (con bibl. prec.), pp. 20-21, 44 cat. n. 3
ESPOSIZIONI: Milano 1934; Roma 1934; Cremona 1937; Parma 2006

Il quadro costituisce una sorta di laconico e complicato enigma, sia a livello tematico che stilistico. La scena parrebbe rappresentare uno scontro tra squadristi (la figura centrale con pizzetto alla Balbo che brandisce il manganello, e altre figure dietro gli alberi con il caratteristico fez nero, simbolo fra i più noti dell’araldica fascista, elemento distintivo e caratterizzante sia della milizia di partito negli anni dello squadrismo, sia della milizia di stato) e “rossi” (le due figure in corte tuniche che si contrappongono a quella centrale, la figura nuda a terra in primo piano che calza un inequivocabile berretto garibaldino e che dà al racconto una connotazione singolarmente drammatica, e forse le altre figure in tuta azzurra, a sinistra, che si limitano a guardare). Potrebbe quindi evocare, dietro la rappresentazione dei primi scontri fra fascisti e socialisti nelle campagne, un cifrato teorema politico di segno antifascista, dove Il grande inizio (che, almeno nel titolo, sembra richiamare l’insignificante Incipit novus ordo, di Arnaldo Carpanetti, vincitore del primo premio del PNF alla Biennale del 1930) dovrebbe alludere non tanto al più scontato inizio della rivoluzione fascista al tempo della marcia su Roma, ma all’inizio della ribellione al manganello. A suffragare quest’ipotesi, come già indicava Quintavalle (Goliardo Padova, 2006, pp. 20-21), concorrono le ascendenze politiche dell’artista, il cui bisnonno, Leone, era stato garibaldino mentre il padre, Rienzo, era stato il primo iscritto al Psi di Mantova. Tuttavia, il fatto che all’epoca il dipinto venisse interpretato come un chiaro manifesto politico teso ad esaltare il periodo eroico, rivoluzionario, mitico della presa del potere da parte di Mussolini, e venisse esposto in speciali occasioni, come i Prelittoriali e i Littoriali dell’arte (che si svolsero fra il 1934 e il 1940) o le mostre sindacali fasciste (avviate dalla fine del 1928 in tutte le regioni) - sorta di eventi di culto finalizzati da un lato a coagulare il consenso verso il regime da parte di giovani operatori artistici non ancora entrati nel sindacato corporativo, dall’altro a rendere visibili ai visitatori i miti dell’ideologia fascista e della sua essenza totalitaria in funzione di rappresentazione simbolica e di mobilitazione propagandistica - non manca di suscitare qualche intrigante perplessità, confermando perlomeno che l’eventuale «segno antifascista del quadro è stato molto ben celato» (Ibidem, p. 21). Oltre che per l’ambiguità del racconto il dipinto, che comunque sembra rispondere alla richiesta (da più parti levata a gran voce) di un’arte legata alla realtà storica del momento, si caratterizza per la novità della scrittura pittorica, lontana sia da quello stile classico-arcaico di notevole forza oratoria, dalla tavolozza terrosa e ferrigna, che aspira (grazie all’impronta inconfondibile di Sironi) a diventare lo stile dell’era del littorio proponendosi di interpretare il presente come declinazione di una rinnovata grandezza, sia da quelle formule, a metà fra naturalezza e incanto, che riscrivono soggetti di attualità su una falsariga primitivista o cinquecentesca, ma piuttosto indirizzata verso il fervere sommesso di nuove urgenze espressive, che si concretizzano in forme semplificate dai volumi appiattiti e assottigliati, e in un sottile equilibrio fra mezzi pittorici e formali che conferiscono al racconto un’aura rarefatta e sospesa (quasi che l’autore avesse portato il passato nel presente senza cedere alla tentazione di fare l’operazione contraria), in linea con le prime, delicate letture chiariste, ma anche con quel suo sapersi «riconoscere fuori dal tempo, indisponibile agli stampi dell’attualità» che Ubaldo Bertoli sottolineava come cifra peculiare dell’artista nella mostra commemorativa promossa nel 1982 dall’Accademia Nazionale di Belle Arti (Mostra di pittura e scultura degli artisti Carlo Corvi, Umberto Lilloni, Goliardo Padova, Renato Vernizzi…, 1982).
A.M.


Il pacco delle opere assistenziali, 1934
MARTINO JASONI (CORCHIA DI BERCETO, 1901-1957)
olio su tela, cm 59 x 75
firmato e datato nell’angolo superiore sinistro
CORCHIA DI BERCETO, MUSEO MARTINO JASONI (INV00003)
BIBLIOGRAFIA: America andata e ritorno…, 2004, p. 67
ESPOSIZIONI: Piacenza 1934

Il dipinto, ispirato al tema dell'elargizione di farina da parte del Governo fascista alle famiglie più povere, fu presentato nel 1934 insieme con Il carico di fieno alla I Mostra Interprovinciale Sindacale Emiliana di Piacenza. Del processo creativo dell’opera restano una versione a carboncino esposta dall’artista nel 1935 alla II Quadriennale di Roma col titolo La farina del Duce, e una variante, realizzata con la medesima tecnica, raffigurante il momento precedente allo scarto dei pacchi da parte della famiglia ritratta. L’opera si inserisce nell’ampio filone legato all’idealizzazione, dolciastra e paternalistica, della campagna e dei rurali che caratterizza gran parte della propaganda di regime legata al progetto della “ruralizzazione dell’Italia” (inteso a legare i contadini alla terra migliorandone le condizioni di vita e ancorandoli così ai valori che il fascismo propugnava), che avrà la sua consacrazione ufficiale sia nei concorsi per la vittoria del grano, a partire dal 1925, sia nella seconda edizione del Premio Cremona, nel 1940. La composizione, caratterizzata da una staticità e da una semplificazione formale che induriscono le pose in una rigidezza statuaria, presenta un interno rustico e povero. In primo piano c’è la tavola, su cui sono appoggiati diversi pacchi di farina e intorno alla quale si dispongono in posa i vari personaggi della scena: l’uomo intabarrato, la giovane madre che allatta (forse omaggio ad un tema, quello della maternità, cui il regime teneva in special modo), il bambino con un pacco in mano, mentre meno approfondita risulta la figura femminile sullo sfondo a sinistra, accanto alla stufa, il cui coinvolgimento è sottolineato dallo sguardo curioso rivolto alla farina sulla tavola. È tuttavia una scena di quotidianità ingessata e poco convinta, priva di qualunque lieto slancio ad onta dell’occasione apparentemente festosa, fiocamente illuminata da una fonte luminosa che possiamo a stento intuire, e che sembra riverberarsi solo sul soffice chiarore dei pacchi. Insomma, una scena in cui il mondo rurale e i suoi soggetti, perduto qualsiasi retorico allettamento come luogo di laboriosità, di salute fisica, di sanità morale, ci appaiono come pervasi da una oscura tristezza accentuata dalla penosa fissità di gesti e di esistenze, e sottolineata da una tavolozza cupa, ferrosa, abbondante di bruni e di terre, in cui non si accende alcun particolare di vivido cromatismo.
Martino Jasoni si era trasferito a cinque anni dalla nativa Corchia di Berceto a New York, dove era rimasto fino al 1924. Dopo gli studi presso le scuole pubbliche, aveva iniziato a lavorare come apprendista incisore in una stamperia, poi come tipografo ed infine come assistente per la preparazione di impressioni su lastre fotografiche. Dal 1919 aveva preso a frequentare con successo, alternando il lavoro diurno ai corsi serali, l’Art Students League, una delle più aperte e stimolanti scuole d’arte del tempo, nata nel 1875 dalla secessione di un gruppo di studenti che avevano abbandonato l’Accademia Nazionale del Disegno, rifiutandone immobilismi e schemi accademici in una prospettiva di assoluta sperimentazione e di indipendenza artistica. Qui aveva avuto maestri autorevoli, pionieri del rinnovamento artistico-culturale americano di quegli anni (da John Sloan, a Robert Henri, al suo allievo Guy Pène du Bois) e affascinanti compagni (da Walt Disney a Otto Soglow, autore del comic strip The Little King). Poi, abbastanza inaspettatamente, proprio mentre stavano maturando i primi frutti del suo impegno, il 24 giugno 1924 si era imbarcato sul Conte Verde con la famiglia per far ritorno in Italia (il padre si era sempre opposto alla sua vocazione artistica e Martino, incapace di sottrarsi alla sua autorità, aveva accettato senza opporsi il rimpatrio), forse pensando ad una breve permanenza e ad un altrettanto rapido rientro in America. Ma non andò così: dal paese natale tra i monti, dove nel 1929 sposava Margherita Jasoni che gli darà due figli, non si muoverà più. Solo e relegato in un impoverimento artistico e culturale, costretto da una critica condizione economica al duro lavoro dei campi, Jasoni si chiuderà sempre più in un declino solitario e silenzioso (di cui è spia il mutare stesso della sua tavolozza in direzione di un colore via via più bituminoso, uniforme e notturno, che pian piano va rendendo muto il seducente canto cromatico della sua prima stagione pittorica), pur continuando fra mille difficoltà la sua produzione artistica fino ai primi anni Cinquanta.
In quest’opera i segni delle diverse linee di ricerca e le tracce dell’intenso scambio di idee e di esperienze che avevano caratterizzato l’entusiasmante stagione americana sono ormai a stento riconoscibili: solo i colori che costruiscono per forza propria le forme (ma quasi astratte da ogni contingente carnalità nella loro essenzialità naïve) e i contrasti di tinte cupe e brumose (un ricordo della pittura di Sloan), si prestano a richiamare il ricordo di quella lontana felicità inventiva.
A.M.

 

Campana fusa con il bronzo dei mortai offerto alla patria dal Sindacato dei Farmacisti italiani e donata ad una Chiesa cattolica di Addis Abeba, 1936-1937
RENATO BROZZI (TRAVERSETOLO, 1885-1963)
modellino in gesso: h cm 30.5, diam bocca cm 18 
sulla fascia, “AES COMPLVRIBUS SÆCVLIS PISTVM REMEDIA ADHIBITVM MORBIS DONANTIVM MICAT FIDE FIDEMQVE TVETVR”; datato sulla gola: “OTTOBRE/ MCMXXXVI/ XIV”; “MAGGIO/ MCMXXXVII/ XV”
TRAVERSETOLO, MUSEO “RENATO BROZZI”
BIBLIOGRAFIA: Renato Brozzi…, 1989, p. 23; Mavilla 1996, p. 114 


Negli anni compresi fra il 1933 e il 1938 Renato Brozzi ottiene alcuni prestigiosi incarichi di decorazione pubblica: quattro grandi Aquile in bronzo da collocarsi a Pescara sul Ponte Littorio (ora del Risorgimento), inaugurato nel 1933 ma frantumato nel giugno 1944 dalle mine dei tedeschi in ritirata (una versione in pietra sarà realizzata dall’artista anche per i giardini del Vittoriale); un sontuoso bastone da maresciallo in argento dorato e pietre dure su avorio, offerto dal Comune di Roma al generale Rodolfo Graziani in occasione della sua nomina a Maresciallo d’Italia dopo la presa di Harar (1937); un set di stoviglie per il neonato Vittorio Emanuele di Savoia, secondogenito del principe di Piemonte Umberto, con piatto, tazza e cucchiaio in argento finemente cesellato (1937); una grande Urna in argento sbalzato sormontata dall’immancabile Vittoria (1938), che avrebbe dovuto contenere la terra del Monte Tomba e di San Martino da offrire al presidente della Repubblica francese Albert Lebrun per contraccambiare il dono della terra di Bligny, dove aveva avuto luogo la Seconda Battaglia della Marna cui aveva partecipato il II Corpo d’Armata italiano, assolvendo con immenso sacrificio al compito di bloccare l’avanzata tedesca; una coppia di cervi per ornare i bastioni posti all’ingresso del Porto di Rodi, da riferirsi anch’essi a questo giro di anni, durante i quali la città è lo scenario dell’attività urbanistica e architettonica fortemente voluta dall’amministrazione italiana, impegnata a farne una capitale rappresentativa sotto tutti i punti di vista, ovvero una moderna città europea specificamente italiana; e una gigantesca campana di 26 quintali e 156 cm fusa nel 1937 ad Agnone dalla fonderia Marinelli, di cui si presenta il modellino in gesso.
La campana era destinata alla torre civica del municipio di Addis Abeba (progettato nel 1938-‘39 dall’architetto Plinio Marconi, un sodale di Piacentini), che avrebbe dovuto diventare in breve tempo la capitale dell’impero in terra d’Africa e la «nuova Roma dello Scioa», il cui piano regolatore, elaborato dagli architetti del Governatorato di Roma, Cesare Valle e Ignazio Guidi, era stato non a caso approvato nell’ottobre del 1936 da Graziani, governatore generale nell’AOI, appena cinque mesi dopo la presa della capitale etiope. Brozzi sa che la torre civica, a metà fra il campanile e la torre littoria delle case del Fascio, è elemento di particolare impatto visivo e simbolico (nella progettazione di Sabaudia Mussolini aveva richiesto esplicitamente agli architetti che la torre si potesse scorgere anche dalla via Appia, sottolineando l’importanza della visibilità e delle proporzioni in rapporto all’ambiente e al significato dell’edificio), così per l’ornamentazione della campana, fusa con il bronzo dei mortai offerti alla Patria dall’ordine dei farmacisti italiani, ricorre ad un eclettico assemblaggio di motivi di intonazione eroico-celebrativa fra loro collegati dai sottili grafismi della sonora iscrizione dettata da Carlo Del Croix, utilizzata come elemento decorativo che percorre fascia e gola: la Vittoria alata in marcia che abbatte il leone della tribù di Giuda (simbolo stesso dell’imperatore d’Etiopia Hayla Selasse I, a cui la Chiesa Cristiana Ortodossa etiope attribuiva appunto il titolo di “Leone Conquistatore della tribù di Giuda” in virtù della sua discendenza da Salomone e dalla regina di Saba), il fascio littorio (che ricalca quello già allestito per la medaglia realizzata nel 1932 a ricordo del decennale della marcia su Roma) e il bastone di comando. Un armamentario ispirato al culto della romanità archeologica che intende celebrare i fasti della potenza dell’Italia fascista (come analogamente faceva la politica del regime a favore delle costruzioni monumentali e a volte faraoniche) e che testimonia di un clima culturale sempre più pesantemente condizionato a partire dalla proclamazione dell’impero, da cui emerge con evidenza il tentativo di ricollegarsi ad un passato glorioso (che il fascismo ritiene di interpretare) al fine di legittimare il presente (che il regime vuole rappresentare). Un presente dove il successo politico conseguito con la conquista militare dell’Etiopia, condotta per «riscattare Adua e commemorare la romana imperialità» (Mussolini 1937), va consolidato dall’opera di civilizzazione italiana e fascista del territorio, civilizzazione che ha nell’architettura e nella decorazione uno degli strumenti più persuasivi (combattere e costruire sono per Mussolini, «costruttore d’impero» secondo la definizione di Bottai, due azioni parallele, due pilastri fondanti dell’agire in politica), atti ad imprimere un chiaro e tangibile segno dell’operosità e dell’efficienza italiane ai nuovi domini, e a costituire la più grandiosa e spettacolare rappresentazione del regime stesso.
A.M.


Il discorso del Duce alla radio, [1938-1939]
MARTINO JASONI (CORCHIA DI BERCETO, 1901-1957)
olio su tela, cm 150 x 200
CORCHIA DI BERCETO, MUSEO MARTINO JASONI (INV00037)
BIBLIOGRAFIA: America andata e ritorno…, 2004, p. 67
ESPOSIZIONI: Piacenza 1934

La presenza sul retro del dipinto di un cartiglio che ne attesta la partecipazione al Premio Cremona, col titolo Ascoltando il discorso di Verona (quello tenuto il 26 settembre 1938, a pochi giorni dal congresso di Monaco in cui Mussolini aveva evitato o almeno ritardato, con la sua mediazione, lo scoppio della guerra in Europa), consente di datare l’esecuzione fra gli ultimi mesi del 1938 e i primi del 1939.
Nel luglio del 1938, in un paese che andava sempre più precipitando verso la guerra e che subiva la vergogna delle leggi razziali, Roberto Farinacci, potente gerarca da sempre esponente all’ala più intransigente, razzista e nazisteggiante del regime, aveva istituito il Premio Cremona con lo scoperto intento di «portare un contributo al tentativo di orientare l’arte pittorica italiana verso una concezione politico-fascista» (Il premio Cremona …, 1940, p. 5) e di colmare una lacuna, dal momento che in diciassette anni il fascismo, che pure aveva permeato di sé ogni attività della vita nazionale, nel settore artistico non era ancora riuscito «a creare qualcosa di nuovo, a darci ancora quella opera che sia espressione del tempo e dello spirito nostro» (come aveva sottolineato il ministro della Cultura popolare Dino Alfieri alla vernice della prima edizione del Premio. Cfr. Munaro 1939, p. 55), e lo aveva fatto imponendo ai partecipanti un tema obbligato e giustificando tale procedimento (che poteva suscitare legittime critiche, anche se già dal ’30 la Biennale aveva cominciato a distribuire premi per opere ispirate a temi cari alla retorica del fascismo trionfante) nel suo discorso di apertura alla rassegna, col sostenere con la consueta, sfacciata virulenza verbosa che gli artisti «in questo campo vogliono essere spiritualmente guidati, così come avveniva nel nostro Rinascimento. Quello che pare così contrario alla libertà dell’artista, l’imposizione di un tema, è quello che invece lo orienta, raccoglie le sue energie, lo costringe a pensare, lo stimola eccitandone la fantasia e l’amor proprio» (Ivi, p. 54). Il concorso era aperto a tutti gli artisti di nazionalità italiana iscritti al Sindacato delle Belle Arti per opere di pittura ad olio o ad affresco. Per il 1939 erano previste due sezioni: Premio A, «Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce» - tema che pare direttamente mutuato dal dipinto del tedesco Paul Mathias Padua (Salisburgo 1903-Rottach Egern, Germania, 1981) Der Führer spricht (Il Führer parla), presentato alla Grande Esposizione d’Arte tedesca tenutasi a Monaco nel 1937, e che il ras di Cremona, acceso sostenitore dell’alleanza con la Germania nazista, non poteva non conoscere -, e Premio B, «Stati d’animo creati dal Fascismo». Per le successive edizioni sarà lo stesso Mussolini, in visita alla rassegna il 19 giugno, a scegliere due fra le tematiche più care alla mistica fascista: «La battaglia del grano» per il 1940 e «La Gioventù italiana del littorio» per il 1941. Delle 300 opere presentate alla prima edizione solo 123 furono ammesse dalla giuria, presieduta dallo stesso ras di Cremona e formata da accademici d’Italia, alti funzionari del Ministero della cultura e artisti rappresentanti del Sindacato di categoria. La scelta della giuria - a quanto pare in perfetto accordo con quella del pubblico, emersa da un referendum popolare predisposto dall’organizzazione per i visitatori – sarebbe caduta per la sezione A (primo premio di lire 40.000) sul quadro dal titolo In ascolto, contraddistinto dal motto «Credere obbedire combattere», del piacentino Luciano Ricchetti; per la sezione B (secondo premio di lire 10.000, dal momento che il primo non venne assegnato) sul quadro contrassegnato dal motto «Vincerà chi vorrà vincere», opera della pittrice Adelina Zandrino di Genova.
È assai probabile che il dipinto di Jasoni debba considerarsi nel novero delle 177 opere non ammesse dalla giuria, per l’impostazione rigida e semplificata che la puntuale pertinenza con la tematica propagandistica non basta a riscattare. L’opera si caratterizza infatti per un allineamento meccanico, impacciato e sin troppo paratattico delle persone irrigidite in pensoso ascolto, sedute o in piedi intorno alla stufa, fra le quali si riconoscono il pittore stesso, di spalle, la moglie Margherita, i figli Maria Teresa e Giampietro, Giovanni Jasoni, oltre ad alcuni personaggi già ritratti nel quadro del 1934 (la giovane madre che allatta, il bambino in piedi sulla panca). Negli anni turbinosi seguiti alla fine del guerra, quando sulla manifestazione cremonese e sui suoi artisti era caduta la damnatio memoriæ (con episodi anche violenti di distruzione o mutilazione), Martino Jasoni, apportò una modifica alla figura maschile in nero (immancabile tocco del colore del regime) ritratta in piedi nel vano della porta all’estremità destra della scena, cancellandone il braccio proteso nel saluto fascista, e ipotizzò di ripudiare il titolo originale sostituendolo con il più asettico Radio Audizioni. Va però detto che l’atmosfera del dipinto, ad onta del titolo che lo vincola forzatamente ad una particolare contingenza politica, risulta abbastanza estranea alla propaganda di regime per la cronaca spoglia da ogni retorica, che pare piuttosto voler porre l’accento sia sul bisogno del gruppo familiare di stringersi intorno al focolare, sia sulla fatica di vivere, sull’isolamento e sull’impoverimento, in una suggestione di racconto che nulla ha a che vedere né con la connotazione positiva ed edificante cara alla “mistica rurale“ fascista e ai suoi sentimenti di un populismo sublimato, né con la sacralità di maniera o con la mitica atemporalità di tante analoghe scene popolar-agricole (si vedano, in proposito, i quadri di Giacchi, Lui; quello di Gerardo Dottori, Ascoltazione del discorso del 9 Maggio XIV; e quello di Mario Biazzi, Ascoltazione di un discorso del Duce, tutti egualmente esposti al Premio Cremona. Cfr. Fugazza 2003, pp. 26, 27, 29).
A.M.


In ascolto, 1939
RICCHETTI LUCIANO (PIACENZA, 1897-1977)
olio su compensato, cm 70 x 100
firmato e datato in basso a destra: “Ricchetti/ 1939”; in alto a destra la scritta: “BOZZETTO/ DEL QUDRO/ ‘IN ASCOLTO’/ VINCITORE DEL/ I° PREMIO/ CREMONA/ 1939”
PARMA, COLLEZIONI D’ARTE CARIPARMA
BIBLIOGRAFIA: Furia 2003 (con bibl. prec.), pp. 63-68
ESPOSIZIONI: Piacenza 1997; Parma 2003; Piacenza 2003; Cremona 2003; Piacenza 2003-2004

Madre e figlio, [1939]
RICCHETTI LUCIANO (PIACENZA, 1897-1977)
olio su tela, cm 180 x 100
PIACENZA, GALLERIA D’ARTE MODERNA RICCI ODDI
BIBLIOGRAFIA: Fugazza 2003 (con bibl. prec.), pp. 74-75
ESPOSIZIONI: Bergamo 1993; Vienna 1994; Piacenza 1996; Piacenza 1997

All’epoca della sua vittoria al Premio Cremona Ricchetti era artista già assai noto a Piacenza, col cui ambiente artistico aveva stretti contatti dagli anni Venti: collaboratore della «Strenna Piacentina» fin dal primo numero, illustratore del mensile «Il Falco», vincitore nel 1934 del primo premio alla Mostra interprovinciale sindacale emiliana con il dipinto Modelle in riposo (Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi), decoratore di chiese locali, si era rivelato pittore dal linguaggio abbreviato e robusto, vibrante di immediatezza espressiva. Lo stesso che ritroviamo nella grande tela che il pittore presentò al concorso, raffigurante una famiglia contadina degli Appennini riunita in cucina in attento, reverente ascolto del discordo del duce alla radio. L’opera avrebbe dovuto essere offerta a Mussolini (Cfr. «Corriere della Sera», 13 giugno 1939), ma rimase al Museo Civico di Cremona dove, nel clima di violenta defascistizzazione e di furiosa demolizione dei simboli del regime seguito al 25 aprile 1945, fu fatta a pezzi con furia iconoclasta. Sopravvissero (per quel che si conosce) solo tre frammenti (uno dei quali secondo Nello Bagarotti, che nel 1977 ne stese l’articolo-necrologio, era stato recuperato dall’artista stesso che «lo teneva dietro un vecchio armadio nello studio mostrandolo con accoramento agli amici»): quello centrale, con l’immagine della “massaia rurale” col bambino sulle ginocchia, pervenuto alla Ricci Oddi nel gennaio 1978 grazie alla donazione di Olivio Teragni, uno dei maggiori collezionisti di Ricchetti, e altri due in collezione privata, raffiguranti Il balilla (firmato, datato e lievemente modificato in epoca imprecisata dall’artista, che eliminò l’aquila dorata dal fez e il fazzoletto azzurro fermato sul petto dal medaglione ONB) e la Natura morta (ovvero il cesto con pane, vino e una mela, e due peperoni) inserita, un po’ a fatica, nell’angolo di sinistra, dietro la radio posata sulla cassapanca rustica. Del processo creativo dell’opera, che in origine misurava circa cm 250 x 350, restano numerosi studi preparatori con varianti (Cfr. Fugazza 2003, pp. 59-63, cat. nn. 1-7), mentre la redazione integrale e definitiva è documentata solo da foto d’epoca e dal bozzetto conservato nelle Collezioni d’Arte Cariparma, donato dall’artista all’Istituto nel dicembre 1940 quale segno tangibile e significativo di gratitudine per la sovvenzione di lire 9.573 ottenuta per le spese di partecipazione al II Premio Cremona (Cfr. Furia 2003, pp. 67-68, cat. n. 8), a cui il pittore aveva presentato Più profondo è il solco, più alto è il destino, che non vinse ma ottenne ampi consensi, e nella giustificata speranza di riceverne un’altra per la terza edizione (alla quale avrebbe presentato due opere, La consegna e Schermitrici della G.I.L., conseguendo ancora una volta il primo premio ex æquo con Gian Giacomo Dal Forno di Milano e Cesare Maggi di Torino). Grandioso non solo per dimensioni, il quadro di Ricchetti ottenne all’epoca un notevole successo (per l’analisi particolareggiata della vicenda critica cfr. Fugazza 2003), sia perché esprimeva con chiarezza didascalica alcuni punti chiave della propaganda di regime (peraltro già esplicitati dallo stesso motto scelto dal pittore, che alludeva alla fedeltà al capo e richiamava, nell’accostamento delle figure di contadini e di soldati uniti da egual destino e dalla consapevolezza di vivere una contingenza storica particolare, la “mistica rurale” del fascismo che non mancava di coinvolgere l’avventura colonialista, cui sembra alludere la figura del giovane con la divisa da reduce dell’Africa), sia perché riusciva ad interpretare «con una verità impressionante» (Munaro 1939, p. 54) quell’atmosfera sacrale ispirata a una religiosa moralità o a un paganesimo epico e atemporale (in linea con tanta pittura tedesca contemporanea) tanto cara al regime: famiglie contadine operose, che vivono il lavoro, pur duro e faticoso, con una connotazione positiva ed edificante; famiglie dove gli uomini sono forti e lavoratori, le donne floride e prolifiche, i figli numerosi, sani, ubbidienti, fiduciosi e fieri come il piccolo balilla sull’attenti.
A.M.  

 

Maggio 1944, 1980
ARISTIDE BARILLI (PARMA, 1913-2009)
olio su tela, cm 100 X 100 
PARMA, BIBLIOTECA PALATINA
firmato in basso a destra: “Aristide Barilli ‘80”; intitolato in basso al centro: “MAGGIO 1944”
BIBLIOGRAFIA: I benedettini a Parma…, 1990, s.p.
ESPOSIZIONI: Parma 1990


Il 17 maggio 1944 la «Gazzetta di Parma. Corriere emiliano», con un lungo articolo dal titolo Terrorismo su Parma e Fidenza dava notizia di un nuovo, terribile bombardamento avvenuto il 13 maggio, nel corso del quale gli aerei alleati, partiti all’attacco dei centri smistamento merci, avevano sganciato 545 ordigni altamente esplosivi mancando in gran parte gli obiettivi prefissati ma colpendo per errore le zone cittadine soprattutto ad est del torrente: «Sabato scorso, verso le 14,30 la nostra città che, martoriata dagli esplosivi anglo-americani stava riorganizzandosi per la graduale ripresa della sua vita di lavoro, ha subìto un nuovo violentissimo bombardamento terroristico; il quarto della serie nel breve volger di 20 giorni, oltre ad un mitragliamento in zone periferiche, che come i precedenti si è concluso con la distruzione di monumenti, teatri e chiese. Nessun obiettivo, quindi, di carattere militare che possa minimamente giustificare la feroce smania di distruzione sfogata con tanta precisa abilità dai criminali volatori al servizio delle potenze antieuropee. Diverse formazioni di apparecchi, tutte orientate sulla stessa direttiva da sud a nord, hanno sganciato centinaia di bombe dirompenti seminando lungo la intera linea, che comprende quartieri periferici, le zone del centro e rioni popolari, la rovina e la distruzione. Si lamentano, così, perdite dolorosissime e difficilmente calcolabili, che interessano, oltre che il materiale patrimonio dei cittadini, anche quello spirituale dell’arte, della cultura, della civiltà universali. Basta pensare che fra gli edifici colpiti a morte figura il famoso Palazzo Farnesiano “La Pilotta” entro il quale erano custoditi, oltre ai tesori d’arte ineguagliabili della Pinacoteca, la Biblioteca Palatina, l’Archivio di Stato, il Museo d’Antichità, il Teatro Farnese. Di questa imponente costruzione, che ha tramandato nei secoli la gloria dei nostri sommi artisti e lo splendore del nostro ducato, le bombe micidiali dei banditi anglo-americani hanno fatto scempio, e con l’edificio sono andati perduti in gran parte i volumi della Biblioteca, i documenti dell’Archivio di Stato, e gravemente danneggiati il Teatro Farnese, l’Istituto d’Arte, e la statua di Canova raffigurante Maria Luigia».
Il quadro di Aristide Barilli coglie appunto i giorni immediatamente successivi al terribile bombardamento: nel vuoto cortilone del Palazzo, distrutto nelle ali meridionale e occidentale, i padri benedettini e i frati dell’Annunziata si mobilitano per recuperare preziosi volumi e documenti della Palatina e dell’Archivio di Stato dispersi fra i detriti dell’enorme cumulo di macerie.
Frammento di memoria fissato nella sua intoccabilità, immagine-diario percorsa come da un brivido di vento freddo, di desolazione e di solitudine, il dipinto è un racconto ancora drammatico a trentasei anni di distanza per la forza dei contrasti tra ombre terrose e luci violente, per il fantasma color malva e ocra della città ferita che si intravede all’orizzonte, per la visione magica e un poco angosciante delle silhouette nere dei religiosi che vanno e vengono dalla collina di detriti, piccole formiche operose nella profondità immensa della vuota spianata, in un’atmosfera che appare come sospesa fra reale e fantastico, fra struggimento e speranza.
A.M.


Parma tra Guerra e Pace, 1947
ARISTIDE BARILLI (PARMA, 1913-2009)
olio su tela, cm 58 x 63
firmato e datato in basso a destra: Barilli Aristide/ 1947
PARMA, ACCADEMIA NAZIONALE DI BELLE ARTI
BIBLIOGRAFIA: Dall’Acqua [2006] (con bibl. prec.), p. 13; La galleria delle arti dell'Accademia di Parma…,2007, pp. 278-279, 320 cat. n. 146
ESPOSIZIONI: Colorno 2006

Il quadro, dipinto dall’artista negli anni in cui la professione giornalistica, di cui aveva «conquistato i galloni» nel 1941 dopo un lungo tirocinio di cronista iniziato nel 1936 con un «posticino in Gazzetta» (F.F., Personale di Aristide Barilli, 1958, p. 3), si era fatta incalzante e assorbente (Aristide Barilli appartiene infatti a quella tradizione di pittori giornalisti, che annovera molti esempi significativi, da Alberto Savinio, illustre scrittore, a Massimo Campigli e Renato Paresce, giornalisti di mestiere, con i quali egli ha condiviso la decisione di abbandonare, prima o poi, il mondo delle linotypes in favore di quello della sola pittura), ben si presta a chiudere questo breve percorso espositivo, sia per la data, sia per il tema, sottolineato da un titolo esplicitamente allusivo (Aristide conosceva bene il potere assoluto di evocazione del titolo, sperimentato per anni nella pratica del giornale) che costringe l’osservatore ad interpretare una sensazione, o una memoria inconscia, trasformata in materia pittorica, in un preciso messaggio.
Nel 1962 Aristide Barilli dirà della sua pittura: «Non ricerco discendenze, l’unica che posso ammettere è quella di mio padre. E così pure evito di dar in anticipo una scansione del quadro. È la poesia dell’oggetto che attendo, allora l’inquadro e la fotografo: solo in quell’atto io mi sento veramente libero» (Dall’Acqua 2006, p. 117). La definizione calza a pennello anche per il quadro in esame, sia per lo stile, che richiama le desinenze di quell’arte intimista, neoimpressionista, che Latino già aveva elaborato, sia per il soggetto, la severa architettura farnesiana della Pilotta (che a Latino ricordava le moli austere di Mala Strana, il quartiere inferiore a sud del Castello di Praga, la “città d’oro” delle cento torri forse conosciuta durante il soggiorno giovanile a Monaco. Cfr. G. Battelli 1935) con la sua cornice di natura e di storia. Un’architettura che doveva più volte affascinare i Barilli nella loro parabola creativa, come attestano le “riprese” dipinte in scorci diversi, con la fedeltà di un gesto reiterato per amore, da Latino, da Aristide, e soprattutto da Renzo, che quotidianamente ne scorgevano la sagoma imponente dalla finestre della loro casa affacciata sulla rive gauche del torrente.
Qui la veduta, totalmente spopolata di presenze umane come nei sogni, ha un nitore quasi fiammante: sotto un mutevole cielo di primavera, che sembra variare fra sole e stracci di nuvole, il prato antistante la Pilotta, innalzata al cielo e incombente come una grande nave incagliata, è tutto in fiore: candelabri di pallide infiorescenze, bocci di rose e radi miosotidi azzurre, di cui pare di avvertire l’odorosa carezza, punteggiano la sostanza trascolorante del verde, tutta varia di toni, di luce e di forme. Intorno la città, anch’essa rosazzurra o cangiante tra colori senza nome e come filtrati attraverso una magica garza, ci appare imbevuta di una luce limpida e aurorale che dà al nuovo giorno la fragranza di un dono, un dono di pace e di libertà dopo il gorgo tragico della guerra e della devastazione.
A.M.

 


IL RITRATTO A PARMA


Ritratto della Signora Baracchini in abito da sera, [1930 ca.]
DONNINO POZZI (FONTANELLATO, 1894-PARMA, 1946)
pastello e tempera su carta, cm 200 x 80
PARMA, COLLEZIONI D’ARTE FONDAZIONE CARIPARMA

Ritratto di Signora, 1931
DONNINO POZZI (FONTANELLATO, 1894-PARMA, 1946)
pastello su cartoncino, cm 51,7 x 45
COLLEZIONE PRIVATA

Artista versatile, di naturale e splendido talento, e di largo successo amatoriale, Donnino Pozzi si caratterizza per un’attività pittorica soprattutto destinata da un pubblico privato da godersi nel contesto della cultura borghese (miti e sogni pagani si alternano a nature morte e a ritratti dove la figura umana, perlopiù inserita in interni sommariamente rappresentati, ha un totale e libero risalto), sebbene non manchino nella sua ampia produzione soggetti religiosi di più severo impegno, come la Deposizione nella Chiesa di Santa Cristina, o L’origine della devozione al Sacro Cuore dipinto nel 1927 per la nuova chiesa parrocchiale di Medesano dedicata alla B.V. Immacolata, ultimata il 2 settembre 1928 e consacrata dal vescovo Guido Maria Conforti.
Allievo di Strobel all’Accademia di Belle Arti, dove si era iscritto nel 1917, l’artista ne trasse importanti suggestioni, specie in ordine alla vitale scioltezza del tratto, ad una tavolozza che si esprime per brillanti impasti di colore, sempre interpretati con una lettura personale che si traduce in una particolare predilezione per certe cromìe accese (per esempio i rossi in tutte le declinazioni o i neri e i marroni dalla trattazione calda e vaporosa) che rinviano da un quadro all’altro, e alla capacità di cogliere i soggetti effigiati con grande spontaneità, ma anche con una sicurezza compositiva ed una felice luminosità che sono il segno di una personale eleganza. Qualità che connotano anche i due ritratti qui presentati, entrambi riferibili ai primi anni Trenta, in cui sono ben avvertibili l’eco della breve stagione vissuta a Parigi, dove l’artista si era recato nel 1928, e le diverse suggestioni di uno stile che si vuole moderno. In entrambi, l’intonazione realista (che fa di Pozzi uno dei principali eredi della ritrattistica “borghese” di derivazione ottocentesca, in cui il dipinto è una sorta di attestato sociale) lascia leggere in controluce un sottile ma puntuale gusto déco, intendendo con questo termine quel “modern style” che sviluppatosi negli anni Venti, aveva raggiunto la pienezza negli anni Trenta, passando da forme di più estenuata eleganza ad altre più perentorie, e che aveva tratto ispirazione da varie fonti, a partire dagli aspetti più severi dell’Art Nouveau, per giungere al Cubismo, ai Balletti Russi, al Bauhaus. Una sigla rivelatasi particolarmente congeniale alla rappresentazione di una nuova società rivolta alla ricerca di modernità costruita sul lusso e su un raffinato edonismo, e sotto la quale si radunavano purezza classica (si noti consistenza eburnea dell’epidermide della Signora Baccarini dall’austera, matronale bellezza di illustri ascendenze), ricerca del moderno e aneliti di decorativismo, come attesta l’attenzione all’eleganza delle toilettes, dei gioielli e delle acconciature (qui rigorosamente in linea con la moda dilagante della garçonne), nella manifesta volontà di rendere evidente la corrispondenza tra l’abito e lo stile di vita che si intende comunicare.
A.M.


Ritratto di Signora, 1940
AMEDEO BOCCHI (PARMA, 1883-ROMA, 1976)
olio su tela, cm 90 x 75
firmato e datato in alto a destra: “Amedeo Bocchi 1940”
COLLEZIONE PRIVATA
BIBLIOGRAFIA: Amorevoli sguardi…, 2006, pp. 64, 98
ESPOSIZIONI: Parma 2006

Il quadro costituisce un esempio forte della produzione ritrattistica dell’artista di cui documenta sia la vivacità nel cogliere le predilette fisionomie femminili, sia la speciale intonazione realista, capace di evocare non soltanto la somiglianza esteriore ma anche una sorta di somiglianza interiore, in grado di svelare la psicologia del soggetto e le sue sotterranee tensioni, in linea con l’etimologia stessa del vocabolo italiano ritratto, dal latino retrahere ovvero “copiare”, o del francese portrait, da protrahere, ovvero “portar fuori” e dunque rivelare. Nel presente Ritratto di Signora come in tutti i ritratti eseguiti da Bocchi in questo giro di anni (Maria Bellina Belloni, 1941; Ritratto di Signora romana I; Ritratto di Signora romana II) la figura è imminente: occupa la maggior parte dello spazio disponibile e arriva a toccarne i limiti. Assoluta protagonista dell’opera, icona di una bellezza e di una moda che a partire dagli anni Trenta ha riacquistato caratteri rassicuranti, di familiare naturalezza col rifarsi morbido e ondoso dei capelli e il risalto dato a fianchi e seno (attributi simbolicamente caratterizzanti, tornati prepotentemente alla ribalta in concomitanza con la ripresa ideologica della figura materna cara ai totalitarismi) esibisce una rotondità tornita di spalle e di braccia, racchiudibili in una nitida geometria, espressa da un disegno fortemente plastico.
A questi elementi sintetici fa però da contrappunto il gusto di particolari narrativi (in questo caso i gioielli, il cui guizzo dorato basta ad animare l’impeccabile eleganza dell’abito nero ma anche a garantire l’evidenza di un preciso decoro sociale, in altri casi i fiori), in netto contrasto per la vivacità dei colori e l’affabilità dei soggetti con «l’ampia e forte visione sintetica» (Il Novecento italiano…, 2003, p. 141) propria del novecentismo imperante, al cui orizzonte (che è poi quello di una classicità ripensata attraverso uno stile radicalmente semplificato) in questo più che in altri ritratti l’artista sembra guardare, sia pure mantenendosi fedele alla propria sensibilità, incline a formule più addolcite ed analitiche. Fondo, spazio, luce sono in funzione dell’emergenza e della centralità della figura, in modo che essa possa imporre la sua umana presenza (così seducente e consapevole della propria posizione sociale) e acquistare un senso concreto di verità in quel solido consistere in primo piano, mentre, all’opposto, il vuoto dell’ambientazione pare immergerla in un tempo immobile, il cui corso è come sospeso, fermo in un eterno presente («Il ritratto deve raffigurare un uomo, non l’attimo di un uomo», aveva scritto Ojetti nel 1921), in uno stato di fissità che è ad un tempo sereno ed inquietante, perché cristallizza la vita negando il fluire dell’esistenza reale.
A.M.


Ritratto di Michaela Gambara, 1945
LATINO BARILLI (PARMA, 1883-1961)
olio su tavola, cm 60 x 43,5
sul retro, “Michaela Gambara/ ritratto eseguito dal Pittore Latino Barilli/ sfollato nella villa Gambara di Felino (1945)”
PARMA, ACCADEMIA NAZIONALE DI BELLE ARTI
BIBLIOGRAFIA: La galleria delle arti dell'Accademia di Parma…,2007, pp. 244, 316 cat. n. 112

Quando, nella tiepida notte tra il 23 e il 24 aprile 1944, anche Parma ebbe il suo battesimo del fuoco, terza in Emilia dopo Bologna e Reggio, con il primo bombardamento aereo alleato diretto a colpire pochi obiettivi strategici (le linee ferroviarie e gli scali “Cirenaica”, i grandi smistamenti ad ovest della città; il Palazzo del Giardino destinato a Comando e Caserma militare; il Ponte Dux), alcuni ordigni più avanzati colpirono gli edifici di Strada delle Fonderie protesi ad argine lungo l’alveo. Uno di essi cadde anche sullo zoccolo di casa Barilli che fa piede sul torrente (Cfr. Montan 2006, p. 96): probabilmente in quell’occasione Latino decise, come molti altri parmigiani che abbandonarono la città il giorno dopo con il fondato timore di nuovi e più distruttivi attacchi, di sfollare a Felino, a villa Gambara. È appunto in tale contesto che l’artista dipinse il ritratto di Michaela (1903-1988), anch’essa pittrice di talento come documenta la bella Testa d’uomo con barba, a sanguigna su carta colorata, conservata presso l’Accademia di Belle Arti  (Cfr. La galleria delle arti dell'Accademia di Parma…,2007, pp. 267, 320 cat. n. 133).
Il dipinto, caratterizzato dalla consueta scioltezza di tratto e da un uso splendente ed emozionato del colore in cui spicca la festosa irruenza dell’accendersi fiammante dei rossi (il ventaglio, il fiore, il braccialetto, l’anello, la collana), lascia affiorare una moderata apertura da parte dell’artista verso atmosfere vicine alla “moderna classicità”  teorizzata dal Novecento Italiano. Si colloca in tal senso il disegno saldo del volto e del busto che esalta, secondo il gusto novecentista, i valori plastici della figura, troneggiante al centro della composizione ma movimentata dall’agio di una posa che affida al taglio di tre quarti e al sentimento vitale della luce e del colore la ricerca di maggiore scioltezza. Ne deriva un’immagine insieme solenne ed affabile, che infonde all’austera bellezza dell’effigiata, all’epoca poco più che quarantenne, una vivacità tutta giovanile che il volto atteggiato a un’espressione fra l’ironico e l’interrogativo, da cui sembra trapelare un certa irrequietezza volitiva, e il gesto confidenziale di farsi aria col ventaglio (elegantissimo assolo intessuto di sofisticate suggestioni esotiche di ascendenza déco) accentuano.
A differenza dei ritratti di gusto classico, che prediligono sfondi realizzati con il solo colore, eliminando qualunque cornice ambientale così che nessun elemento venga a precisare il tempo e il luogo in cui si vive, il dipinto in esame rinuncia ad uno spazio indistinto per descrivere un brano di giardino vero, lussureggiante di materia verde e profondo d’ombre, di spessori muschiosi e di terra umida che si accavallano a rappresentare una profondità tutta varia di toni e di luce, da cui emerge il solido rigoglio della yucca, che incornicia come un’aureola verde il volto della donna. Il risultato complessivo è dunque un’accentuazione della volumetria ed insieme un’intensificazione del realismo e della liricità dell’immagine, tanto che essa si presta ad essere letta come una sorta di allegoria: il caldo risveglio della bella stagione dopo la lunga stagione fredda, a sua volta simbolo di un’epoca glaciale, scossa dalla guerra terribile, che l’Europa ha attraversato.  
A.M.


 
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